Tornare all’essere! Riattualizzare il realismo metafisico per superare la decostruzione del pensiero postmoderno (pt. 3)

Propongo ai lettori di Briciole filosofiche la seconda parte (per la prima parte clicca qui, per la seconda parte clicca qui) di una ricca e puntuale recensione che Matteo Andolfo ha fatto ai primi numeri della rivista τί έστι. Come detto in altri luoghi questo progetto nasce per affrontare temi che spaziano dalla metafisica all’etica, dalla gnoseologia alla psicologia, dall’epistemologica all’estetica, fino ad arrivare alle nuove frontiere della ricerca come la bioetica, il biodiritto o l’intelligenza artificiale. Lo sforzo degli autori di questa rivista sarà quello di recuperare – al netto di ogni antipatia ideologica verso il fenomeno religioso, in qualsiasi modo lo si voglia considerare – la forza e l’efficacia scientifica del pensiero speculativo di tipo metafisico. Si tratta dunque di compiere una battaglia culturale a difesa dei diritti della metafisica e perciò della filosofia in quanto tale, in un momento storico che, per certi aspetti, è decadente, antiumano, dominato dall’illogico, non sincero [Giovanni Covino].


Nondimeno, la nuova rivista non teme di affrontare criticamente anche la propria tradizione di riferimento né di cimentarla con i temi della modernità e contemporaneità.

In un mio articolo che ho avuto la possibilità, l’onore e il piacere di elaborare per il secondo numero, ho esaminato criticamente il saggio di Massimiliano Del Grosso, La conoscenza intellettiva dei singolari e il fondamento critico del realismo (postfazione di G. Covino, Leonardo da Vinci, Roma 2021), che rinviene nella gnoseologia di Tommaso d’Aquino alcune aporie, ereditate dalla tradizione platonica e aristotelica, che fanno fallire ogni tentativo di fondazione critica del realismo come metodo e posizione epistemologica. Nell’articolo prospetto una via risolutiva dell’aporia in questione ripensando in termini di autocoscienza intellettiva immediata originaria il concetto tomista dell’intelletto agente. Inoltre, in questo come nel mio contributo al primo numero della rivista, mi impegno a dimostrare l’apporto teoreticamente fecondo che al realismo metafisico può pervenire dalla tradizione neoplatonico-cristiana, in particolare nella formulazione che essa assume in Niccolò Cusano: non solo riesce a conciliare teoria dell’astrazione e dell’illuminazione, affermando realisticamente che la conoscenza sensibile e quella intellettuale attingono in modi distinti, ma secondo una comunicazione intrinseca, la realtà extramentale, ma il suo concetto di “sapienza”, che è l’asse teoretico della sua filosofia, offre al pensiero contemporaneo, che secondo Gilson vi ha rinunciato smembrandosi in una miriade di prospettive difficilmente integrabili, di riprendere la ricerca dell’arché, la sapienza appunto, mentre la sua teoria della conoscenza congetturale del vero permette al realismo metafisico di confrontarsi con le molteplici Weltanschauungen odierne considerandole, sul piano metafisico, quali visioni congetturali contratte fondate nella visio absoluta Dei, oggetto della teologia razionale, ma precisabile sul piano teologico come cristocentrica: è la “visione di tutte le visioni” che può individuare i gradi di partecipazione al vero di ogni congettura e il suo carattere implicitamente cristico (per Cusano Cristo è la sapienza incarnata e la più perfetta manifestazione del “potere in sé”, al quale termina la “caccia” della sapienza nell’opera omonima).

Particolarmente calzante con la tragica situazione attuale del conflitto in Ucraina, alle porte dell’Europa, è l’articolo di Massimo Roncoroni sul secondo numero della rivista, che si propone di accertare in che modo l’opera Per la pace perpetua di Kant possa rispondere al pensiero contemporaneo in tema di guerra e pace. Non è solo un “classico” della minoritaria filosofia della pace, ma anche il primo testo di diritto internazionale. La pace universale è un postulato della ragion pratica e per essa dobbiamo operare come se fosse realtà possibile e ragionevole[1]. Per lo studioso la ragion pratica, teoria del dover essere morale, si manifesta forma formante e motore del pensiero kantiano, la sua vera metafisica, sia pure di tipo postulatorio in quanto fondata su esigenze originarie e grandezze vettoriali della volontà razionale umana, piuttosto che su evidenze originarie di una razionalità capace di cogliere la verità delle cose.

Nel saggio Kant espone gli articoli di un immaginario trattato di pace, tra i quali mi limito a ricordare quelli maggiormente attualizzabili: nel primo afferma che nessun trattato di pace può considerarsi tale se fatto con la tacita riserva di pretesti per una guerra futura. Il secondo articolo vieta che qualsiasi Stato indipendente possa venire acquisito da un altro mediante successione ereditaria o per scambio, acquisto o donazione. Kant combatte la teoria e l’istituto dello “Stato patrimoniale” tipico dell’età moderna, «secondo i quali il territorio di uno Stato e la gente che lo abita sono considerati proprietà del principe, il quale dispone di questi come padrone […]. Alla concezione patrimoniale dello Stato, oggi, nel contesto di tecnocrazie, quasi sempre legate a “multinazionali” finanziarie, e propugnatrici di un completo riflusso del diritto pubblico nel diritto privato, dell’entità statale in azienda, Kant contrappone la concezione dello Stato quale “persona morale”, della quale in analogia con la “persona fisica” non si può disporre come di cosa qualsiasi» (pp. 20-21), tesi che richiama la seconda formula dell’imperativo categorico: «Agisci in modo da considerare in te e negli altri l’umanità, mai esclusivamente come mezzo, ma anche e soprattutto come fine». «È questa la scaturigine, etica e filosofica, del moderno “Stato di diritto” liberale» (ivi). Il quinto articolo afferma la necessità della non ingerenza violenta di uno Stato nei confronti della costituzione e del governo di un altro, mentre nel sesto si sostiene che nessuna situazione conflittuale può consentire atti di ostilità tali (assassini, avvelenatori, spie, la rottura di un accordo di resa e l’istigazione al tradimento) da rendere impossibile un rapporto di fiducia nei confronti della pace prossima ventura. Per Kant, infine, c’è una sola guerra giusta, quella che uno Stato conduce per difendersi da un nemico ingiusto che lo ha aggredito. L’attualità di queste concezioni non ha bisogno di commenti.

Kant osserva che, mentre il diritto statuale interno regola i rapporti cittadino-Stato e il diritto internazionale i rapporti tra Stati, il diritto cosmopolitico regola i rapporti tra uno Stato e i cittadini degli altri Stati, gli stranieri. «Come si vede, il punto qui toccato da Kant è di grande attualità, sia di impostazione sia di risoluzione del problema, e la sua massima fondamentale è la seguente: uno straniero che si rechi nel territorio di un altro Stato non va trattato ostilmente, sino a che non abbia compiuto atti intenzionalmente ostili nei confronti dello Stato ospitante, con ciò arrecando una grave lesione ai diritto-doveri di ospitalità. Kant giustifica tale massima col diritto spettante a ogni uomo di entrare in società con i propri simili in virtù e in forza del diritto al possesso comune, originario, di tutta la superficie della terra» (pp. 28-29). Kant individua, tuttavia, un limite a tale diritto di ospitalità: chi è ospite passivo di uno Stato straniero non può approfittarne per minacciarne l’esistenza. Storicamente tale clausola è diretta contro l’ingerenza dei cittadini di Stati colonizzatori nei Paesi indigeni.

Nella sezione “Filosofia&Diritto” del primo numero Aldo Rocco Vitale affronta la questione delle fonti del diritto nel XXI secolo, partendo dall’idea oggi diffusa secondo cui tanto il Parlamento quanto la Corte Costituzionale debbano tener conto degli orientamenti e delle istanze provenienti dal momento storico dato o dipendenti dalla coscienza sociale. Sin dall’antichità greca, rileva lo studioso, si sono sempre fronteggiate due principali correnti di pensiero, accomunate dal considerare le leggi imperfette e sempre perfettibili, ma contrapposte nel dedurre da ciò, la prima, che occorra non modificarle, soprattutto se si tratta delle leggi antiche, dei padri, tramandate di generazione in generazione, e la seconda, invece, che debbano essere costantemente adeguate ai mutamenti del tempo, della storia, della società.

Per prendere una motivata posizione sulla questione Vitale richiama alcune tesi del Minosse di Platone:

– la legge è una deliberazione di chi governa, ma non si può ridurre soltanto a questo;

– la legge è connessa alla struttura dello Stato, della comunità, ma soprattutto al senso del giusto e dell’ingiusto, alla distinzione tra ciò è bene e ciò che è male;

– la vocazione della legge si può comprendere soltanto nella misura in cui si vada oltre la sua forma, poiché la legge è soprattutto scoperta dell’essere e della verità del diritto.

– leggi mal fatte obbediscono alle contingenze e riflettono gli interessi degli uni o degli altri, mentre invocare il bene di tutti implica un riferimento all’universale e, pertanto, all’assoluto.

Secondo lo studioso, questi tre elementi concorrono al disvelamento della dimensione onto-aletica che per Socrate costituisce la natura della legge. «In quest’ottica, dunque, la legge non può che assumere una funzione più alta della mera ratificazione formale della volontà di chi la esprime, esprimendo la propria vocazione come rivelazione dell’essere del diritto, cioè la giustizia. […] Soltanto l’efficienza triangolare e dialogica di θέμις, νόμος e δίκη, infatti, consente all’autorità di essere effettiva mediante la legge, alla legge di essere giusta mediante la giustizia, e alla giustizia di essere cogente mediante l’autorità. Inoltre, in questa dialettica l’autorità che trova argine nella legge evita di diventare tirannica, la legge che viene vitalizzata dalla giustizia evita di diventare sterile e autoreferenziale, la giustizia che trova applicazione tramite la legge dell’autorità evita di rimanere un ideale astratto» (p. 66). Il νόμος appare al centro, quasi per tenere insieme le due forze antagoniste dell’autorità da un lato e della giustizia dall’altro.

Insomma, solo il riconoscimento di un fondamento veritativo del diritto – il fondamento nell’assoluto della giustizia che consiste nel perseguimento del bene di tutti, cioè nel riconoscimento di un ordinamento universale nell’origine e nella destinazione che non può essere soppresso dal tempo e dalla storia – preserva il diritto dalla catastrofe della strumentalizzazione politica tipica dei regimi totalitari e assicura alla persona l’irrinunciabile fondazione etico-legale per la protezione dei propri diritti naturali e fondamentali secondo le logiche proprie e inderogabili dello Stato di diritto e della democrazia. Allora, nel contesto culturale attuale, non è all’indirizzo concettuale “plastico” (il diritto può essere modellato in base a differenti elementi socio-storici che si avvicendano nel corso del tempo, in particolare desiderio individuale, utile economico, necessità) né a quello “atopico” (nega la possibilità stessa di un fondamento del diritto) che occorre riferirsi, bensì al modello “onto-assiologico”, che, riprendendo l’antica tradizione giusnaturalistica, sostiene che il diritto si fonda sul riconoscimento della realtà metafisica dell’essere umano nella sua specificazione di persona. Il tempo può interagire legittimamente con il diritto suggerendone i percorsi, purché questi non si pongano in contrasto con le basi personalistiche, evitando ogni ingenua deriva storicistica.

Matteo Andolfo


[1] Dalla Critica del giudizio emerge quale base del pensiero kantiano una concezione teleologica della natura e della storia, sostanzialmente orientata dalle tre canoniche idee della ragione: mondo, Dio e anima umana.


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