L’artiglio del diavolo, IX-X. Un’indagine del commissario Salaris



IX.

Il commissario, dietro una parete dell’ingresso dell’appartamento, guardava la scena, ma non riusciva a capire bene le parole. All’improvviso, Perni venne colpito con tutta la forza che quell’uomo aveva in corpo. Una rabbia mai vista. Si trattava di un giovane alto e robusto, una giacca marrone scuro e un cappello dello stesso colore. Dall’accento il commissario comprese che si trattava di uno straniero, ma in Italia da un tempo sufficiente per imparare la lingua.

Salaris era ancora lì nascosto. Intervenire subito, poteva essere pericoloso. Mentre l’aggressore si apprestava a scagliare il colpo di grazia, squillò il telefono che l’uomo aveva in tasca:

«…!»

….

«No…».

«…».

La voce si confondeva con le voci dei concorrenti del quiz in televisione. Il commissario riuscì comunque ad intuire qualche parola:

«…Nobody…hel… me».

«…I live it».

La voce era diventa fredda, ma suadente. Quel “I live it” afferrato era stato pronunciato come se l’aggressore stesse assaporando qualcosa di squisito, come un delizioso dessert. La rabbia sembrava aver lasciato il posto al desiderio di avere qualcosa, di possedere qualcosa o qualcuno.

All’improvviso, si sentì un rumore sordo dalle scale. Il commissario non aveva potuto chiudere la porta dell’appartamento. Il tonfo portò il giovane a girarsi di scatto. Non si accorse della presenza del commissario, ma decise che era il momento di lasciare l’appartamento. Freddamente uccise Perni, poi si apprestava a raggiungere l’uscita, quando entrò Brera. Visto l’agente, l’uomo, che aveva solo gli occhi scoperti, si fiondò su Brera, lo travolse e, in un batter di ciglio, si trovò fuori e giù per le scale.

Brera si alzò immediatamente e seguì il commissario che si era messo subito all’inseguimento. Il ragazzo era però velocissimo. Gli anni facevano la differenza. In strada ormai le tracce erano state perse.

«…commissario, mi scusi» – disse rammaricato Brera. «Non era mia intenzione disubbidire ad un Suo comando, ma mi stavo preoccupando…e visto l’ultima volta …».

«Capisco, Brera, che non accada mai più» – disse il commissario con un tono perentorio e severo.

«Sì, commissario».

Il tempo dell’attesa era concluso. Bisognava risolvere il caso. Un’altra persona era entrata in scena.

«Prendi l’auto, Brera» – disse il commissario.

«Subito».

«Andiamo all’università. Veloce».

La macchina sfrecciava per le vie di Torino. Iniziò a piovere.

«Commissario…».

«Andiamo dal professor Balor…c’è qualcosa che non ci ha detto durante il nostro incontro…ha aiutato di certo qualcuno…e ha voluto confonderci narrandoci la storia di Cesare, portandoci a capire la simbologia dell’omicidio. Ci ha detto tutto per non dirci niente…e coprire se stesso…il libro già pronto…appena ha visto le foto, non ha esitato un attimo e ha raccontato l’orrore simbolico delle morti…Veloce…vai».

Brera non disse niente. Ingranò la marcia, concentrato sulla strada, accelerò. I due giunsero all’università e si precipitarono dentro. Raggiunsero lo studio del professor Balor che era alle prese con una delle sue letture come se niente fosse.

«Dov’è suo figlio?» – chiese il commissario, andando subito al sodo.

«Commissario…».

«Non ho tempo da perdere, professore. Dov’è suo figlio?» – ripeté il commissario.

«L’ho sentito poco fa. Era in preda al panico…cosa ha combinato?».

«Lo sa bene. Dov’è?».

«…commissario…».

Il commissario spazientito tirò via il cellulare dalle mani di Balor, aprì l’applicazione GPS del dispositivo e – come aveva immaginato – riuscì ad individuare il cellulare del figlio. Un garage del quartiere Aurora.

«Brera, arresti subito il professore Balor e chiami la centrale…Io prendo la macchina…bisogna far in fretta».

Il commissario salì in macchina e volò letteralmente verso il garage. Giunto sul posto, scese dall’auto e d’istinto inviò la posizione a Brera. L’aria fredda sferzava il volto di Salaris, la pioggia iniziava a scendere accompagnata da qualche fiocco di neve. Salaris decise di entrare. Il ragazzo era lì in mezzo, visibilmente in preda al panico. L’entrata del commissario sorprese il ragazzo che, voltandosi di scatto, con un destro, fece cadere il commissario. La pistola finì dall’altro lato. Il volto del figlio di Balor era stravolto, era il volto di un folle sì, ma anche di un uomo sofferente.

«Perché?» – chiese il commissario.

«Perché cosa?».

«Perché hai fatto quella cosa terribile e a tutte quelle persone?».

«Commissario, mio padre ha detto che Lei ha letto la storia di quel rituale. Sai quante volte l’ha fatto con me? Centinaia di volte…Io poi l’ho vissuta, volevo convincere Lynett della bellezza nascosta nel nostro incontro, ma per lei non c’era nulla…».

«Lei ha ucciso per un delirio…».

«Chiama delirio ciò che non capisce».

«Io capisco…».

«L’amore che provavo per Lynett non poteva essere espresso se non nella grandezza, grandezza che lei ha rifiutato. Ed io non ho fatto altro che sacralizzare ciò che lei hai rifiutato…l’ho salvata…mio padre non vi ha spiegato il fine di quel rituale».

«E gli altri omicidi?».

«Facevano parte del sacrificio, del rito…le fiamme hanno purificato le relazioni che hanno distrutto il nostro legame. Lei non capiva, per questo…».

Il commissario stava cercando di comprendere le ragioni del gesto e cercava, allo stesso tempo, di mostrare all’assassino una via diversa: una parola, come amore o libertà, svuotata del suo contenuto diveniva un’arma pericolosa, un motivo per distruggere, appariva come una sorta di maleficio che banalizzava la realtà, le persone, il mondo intero. Salaris sapeva benissimo quali fossero dell’animo umano le potenzialità e perdersi, nei suoi infiniti rivoli, poteva essere un’infausta possibilità; proprio per questo cercava di parlare, spiegare, condurre pian piano Balor a capire. Ma il giovane era lì davanti al commissario con la pistola puntata: sembrava deciso a continuare la sua opera, non voleva metter in discussione il suo mondo, un mondo, sì distorto, ma costruito con tanta fatica. Non c’era molto da fare, se non sperare che le parole potessero far breccia nel cuore di uomo che stava perdendo definitivamente se stesso.

«Balor, ascoltami, non tutto è perduto. Hai fatto cose terribili, certo ne soffrirai, ma non aggiungere al dolore di tante morti, altri dolori. Pensa che il male, per quanto grande, può essere sconfitto…e so che non è solo colpa tua…tuo padre ha tante responsabilità…».

Gli occhi del ragazzo divennero sempre più rossi per la rabbia che montava. Al commissario sembrava quasi di percepire il battito del suo cuore…

«Commissario, Lei non ha compreso nulla di me. E ora glielo dimostrerò…».

In quel momento, Balor caricò la pistola e il colpò partì dirigendosi verso il commissario. I pochi metri che li separavano sarebbero stati coperti in un niente dal proiettile.

Il tonfo del corpo rintronò nel garage.

Una vita finiva in un rantolo, il triste epilogo di una terribile vicenda: l’uomo aveva gli occhi fissi e il commissario si accorse che ormai non avevano in sé la vita.

L’agente Brera era arrivato appena in tempo. Partito il colpo, si era fiondato buttando giù il commissario e sparando al ragazzo. Una vita per una vita. Una regola da seguire. Era solo questo in quel momento. Attimi difficili che sembravano dilatarsi in una tensione crescente. Non c’era altro da fare. Lo sguardo vitreo del giovane certificava la follia di quanto era accaduto nella mente di quel giovane. E il commissario ne era tristemente consapevole.

«L’amore per una persona non è distruzione» – disse il commissario con gli occhi ben puntati su Brera. «L’amore vive di libertà, non di costrizione…una parola, ma questa parola negata ha avuto un terribile effetto sulla realtà».

«Commissario, sta bene?».

«Sì, Brera. Grazie».

Salaris e Brera attesero l’arrivò dell’ambulanza. Poi si diressero verso l’auto per ritornare in centrale.

«Commissario, il professor Balor è fuori di sé. Perché l’abbiamo arrestato?».

«Brera, la follia del figlio è stata nutrita dal padre. È lui che l’ha spinto verso questo orrore, non spiegando la differenza tra un desiderio vivo e sano da una patologica possessione, non aiutandolo quando era il momento. Lui aveva compreso questo e aveva sfruttato l’instabilità del figlio per mettere in difficoltà Lynett che stava crescendo sempre più in ambito accademico. Semplice invidia, Brera. Quando siamo stati dal professore ho percepito qualcosa di strano nella sua volontà di aiutarci, nel sapere perfettamente cosa dire, nel suo passo nervoso e, dopo qualche giorno, ho chiesto di mettere sotto controllo il telefono di Balor per favorire le indagini…e le parole hanno confermato i sospetti».

«Ottima mossa commissario».

«…l’invidia, caro Brera, è come una bestia che divora l’uomo dall’interno. Una bestia che dorme in ognuno di noi».

X.

La giornata si presentava rigida. La pioggia continuava a battere sui vetri delle finestre degli appartamenti e un vento leggero muoveva le foglie degli alberi. La Mole antonelliana, con la sua spinta[MOU2]  assoluta verso l’alto, mostrava tutta la sua bellezza. Mancava qualche giorno al santo Natale. Decine di persone affollavano la piazza principale, altre entravano ed uscivano dai negozi per gli ultimi giorni di compere. Come sempre, si respirava un’aria diversa, tutti si apprestavano a celebrare le festività imminenti. Il mondo stava cambiando, ma il richiamo della tradizione continuava a sentirsi per uno strano mistero: piccoli gesti e consueti riti riuscivano ancora a rompere, dopo centinaia di anni, il guscio ipocrita del consumismo.

Il commissario spense la tv e si posizionò comodo sulla sua poltrona dinanzi alla finestra, posto ideale per le sue letture ma, al tempo stesso, fonte di distrazione: quella finestra lo portava a perdersi nei suoi pensieri, nelle strade della città o ad ammirare semplicemente la sua aristocratica quiete. Sentiva però che quello era il suo posto. Anche in questo Salaris mostrava di essere un uomo di altri tempi: amava in silenzio osservare, la semplicità di un caffè mentre leggeva o una piacevole conversazione con un conoscente. Non c’era molto da chiedere alla vita. Anzi. In fondo – ripeteva spesso tra sé – vivere era nient’altro che questo. Se qualcosa l’esperienza gli aveva insegnato era proprio dare valore alla semplicità, al gesto quotidiano in un mondo che ormai si muoveva globalizzando, per le sue scintillanti vetrine, persino il bene.

La pioggia cadeva più forte. Il commissario aprì il libro e lesse:

“Tutti riceviamo un dono.

Poi, non ricordiamo più

né da chi né che sia.

Soltanto ne conserviamo

– pungente e senza condono –

la spina della nostalgia”.

Giorgio Caproni

Salaris pensò quanto importante fosse quella prospettiva e, riflettendo sulla sua ultima indagine, comprese quanto banale fosse il male.

Dietro il raccapricciante orrore c’era sempre il tentativo di andare al di là, oltre, di scegliere ciò che non può essere scelto o di dimorare e costruire in un luogo che non esiste, è rinnegare, in fondo, il dono ricevuto. Per questo – e il commissario lo sapeva bene – il dettaglio da ricercare, la firma del male, il segno lasciato dall’artiglio del diavolo, in un’indagine, è lì: nella sua terrificante banalità.

Giovanni Covino

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