Uno strano posto di villeggiatura: la storia dell’Overlook Hotel

«Ogni grande albergo ha i suoi scandali, aveva detto Watson,

proprio come ogni grande albergo ha un fantasma» .

Stephen King, Shining

Edito nel 1977, Shining è uno dei romanzi più famosi di Stephen King. Come già detto in un recente articolo – E chi è che vien trotterellando sul mio ponte? parte 1 e parte 2 – i testi dello scrittore statunitense non possono essere considerati semplici horror. Certo, la tensione, la paura, in taluni casi l’orrore, sono aspetti importantissimi, ma – a mio parere – funzionali alla narrazione che cerca in tutti i modi di scandagliare gli angoli più bui dell’animo umano, le fragilità della nostra condizione, le nostre situazioni limite.

Ma la paura gli [si parla del piccolo Danny Torrance] si era insediata nel cuore, profonda, spaventosa. Attorno al cuore e attorno a quell’indecifrabile parola che aveva scorto nello specchio del suo spirito.

S. King, Shining, tr. it., Bompiani, Milano, 2023, p. 55.

Nel 1980, il regista Stanley Kubrick adattò il romanzo nell’omonimo film. Divenuta una pietra miliare nella produzione cinematografica mondiale, la pellicola fissò nell’immaginario collettivo gli aspetti più inquietanti del romanzo grazie anche alla superba interpretazione degli attori, soprattutto di Jack Nicholson e al suo sguardo di terrificante lucida follia.


Nonostante il film di Kubrick sia nella lista dei miei preferiti – per una breve recensione: The frightening world of Shining -, il romanzo presenta aspetti che, per forza di cose, si perdono quando vengono tradotti in immagini.


Come dicevo poco sopra, il tema più interessante del libro riguarda il confronto con le proprie fragilità. Nel caso specifico di Shining, vengono messe sotto la lente di ingrandimento le debolezze del protagonista Jack Torrance che si riversano, come un fiume in piena, nella sua vita privata, e soprattutto nelle relazioni con le figure più importanti, la moglie, Wendy, e il figlio, Danny.

La perdita del lavoro, il fallimento come scrittore, i problemi nella gestione della rabbia a causa delle frustrazioni, la lotta contro i problemi con l’alcol, portano Jack ad accettare il lavoro di custode dell’Overlook, un hotel che si trova in una località di montagna nel Colorado e che chiude i battenti durante il periodo invernale.

Qui, inizia la lenta, inesorabile discesa nella follia.

La descrizione di questo terribile declino psichico è davvero impressionante: segni vengono disseminati sin dall’inizio, ma è solo in questo strano posto di villeggiatura, l’Overlook Hotel, che Jack crolla definitivamente preda dei suoi fantasmi. Il luogo diviene proiezione di questo incubo, come quando il protagonista vede la sepie animarsi sotto i propri occhi:

Jack rimase a lungo immobile, il respiro roco in gola che finalmente rallentava. Si frugò in tasca in cerca delle sigarette e ne fece cadere quattro dal pacchetto sulla ghiaia. Si chinò a raccoglierle, frugando, annaspando, senza mai distogliere lo sguardo dal giardino ornamentale per timore che gli animali si mettessero in movimento. Raccolse le sigarette, ne ricacciò tre alla bell’e meglio nel pacchetto e accese la quarta. Dopo averne aspirato due lunghe boccate la lasciò cadere a terra e la schiacciò col piede. Si avvicinò alle cesoie e le raccolse. “Sono molto stanco,” disse, e ora gli parve che parlare ad alta voce fosse una cosa assolutamente normale. Non gli sembrava per niente folle. “Ne ho passate un po’ troppe. Le vespe… la commedia… Al che mi telefona con quel tono. Ma va tutto bene.” Si accinse a risalire a lenti passi verso l’albergo. Una parte della sua mente lo stuzzicava malignamente. Tentava di convincerlo a compiere una deviazione attorno alle siepi tagliate in forma di animali, ma lui risali direttamente il viottolo di ghiaia, passando tra loro. Un lieve alito di vento le faceva frusciare, ecco tutto. S’era immaginato ogni cosa, da cima a fondo. S’era beccato uno spavento del diavolo, ma adesso era passato. Indugiò nella cucina dell’Overlook a ingoiare due compresse di Excedrin; poi scese da basso a sfogliare carte finché udi il rombo attutito del furgoncino dell’albergo che imboccava il viale d’accesso. Sali loro incontro. Si sentiva benissimo. Non vedeva che motivo ci fosse di accennare alla sua allucinazione. Si era preso quello spavento d’inferno, ma adesso era passato.

Shining, pp. 287-88

Il lettore è immerso nell’inferno dell’Overlook e riesce a sentire sulla propria pelle il senso di isolamento: l’ansia, l’angoscia diventano protagoniste della vicenda e, il senso di oppressione aumenta quando inizia a nevicare: «tagliat[i] fuori dal mondo […] i tre [divennero] simili a microbi intrappolati nell’intestino di un mostro» (p. 288).

Come accennavo, il tema principale del volume è quello delle debolezze di Jack Torrance e le gravi ripercussioni che queste hanno sulla sua vita.

Tuttavia, durante la lettura si scopre altro della vita di Torrance: King, in alcune pagine, si sofferma sul rapporto padre-figlo e, durante una specie di sogno lucido, Jack parla della propria esperienza:

L’amore aveva cominciato a inacidirsi a nove anni, quando suo padre, a forza di bastonate, aveva spedito sua madre all’ospedale, Aveva cominciato a usare il bastone un anno prima, quando un incidente stradale l’aveva storpiato. Da quel momento non lo aveva più abbandonato, un bastone lungo, nero, grosso, dal pomo dorato. Ora, mentre sonnec-chiava, il corpo di Jack sussultava e si raggomitolava al ricordo del rumore che il bastone faceva nell’aria, una sorta di sibilo omicida,E poi l’urto violento contro il muro…o sulla carne.

Shining, p. 305.

Quello stesso bastone lo agiterà, quasi come una sciagura inevitabile, lo stesso Torrance.

Wendy, di fronte a questo orrore, cerca in tutti i modi di difendere Danny che aveva già visto, grazie alla sua “aura” (shining), il male che si agitava nel cuore del padre, quel male che, nelle pagine, man mano si identifica con l’albergo stesso, con questo luogo chiuso che intrappola, che diventa sempre «più forte» e «vuole fare del male a tutti» (p 494). L’Overlook è, in questo senso, il simbolo delle nostre prigioni, di quelle paure che ci ingabbiano e distruggono la speranza nella nostra vita.

Giovanni Covino

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