Il mistero della biblioteca di Oxford, IV.2 – V



IV. 2

Lunedì, 25 marzo 1308

«…e così – concluse Scoto – quel caso venne risolto e i nostri confratelli consegnati alla giustizia».

«Maestro – chiese lo studente – come si è accorto della presenza della sarabatana?».

«Stavo scrutando attentamente ogni gesto dei miei confratelli e le loro posizioni. Dalla disposizione del nostro caro Filippo, ho compreso la direzione del colpo e il nostro rettore era spuntato proprio da lì insieme ad Iginio, che era andato a chiamarlo subito dopo la loro falsa scaramuccia. Due cose mi insospettirono: la prima la velocità del suo arrivo, la seconda la posizione serrata della mano destra, come se stesse mantenendo qualcosa. Allora ho pensato a quanto mi era stato confidato alcuni giorni prima sul cambio di reggenza e compresi l’abisso in cui l’animo del rettore era caduto».

«Come però dall’invidia si può passare all’omicidio?» – chiese un altro studente.

«L’invidia è una bestia che divora il cuore dell’uomo e tutti noi ne siamo soggetti: dobbiamo cercare di domarla, di lasciar correre i nostri pensieri e regolare il nostro desiderio. Il desiderio, infatti, cresce a dismisura se non obbedisce a qualcosa di superiore. Il rettore ha fatto proprio questo. Ha trasformato il desiderio legittimo di essere una guida nella ragione ultima della sua vita: ha capovolto completamente la scala dei beni. E l’invidia ha divorato il suo cuore. Quando si è reso conto che stava per perdere quello che ormai era la sua ragione di vita, ha pensato di sistemare tutto eliminando Filippo. L’abisso, cari studenti, chiama l’abisso».

«Maestro, che cosa possiamo fare per evitare tutto questo?».

«Non bisogna mai confidare sulle sole proprie forze. Quando facciamo filosofia e riflettiamo sui grandi misteri della nostra vita scopriamo tutti i nostri limiti: la nostra esistenza è come un piccolo fiore di campo o come l’erba che – come dice il Salmo – germoglia al mattino, alla sera è falciata e dissecca».

«Cosa vuol dire?».

Le giovani menti erano assetate di conoscenza e molti ancora non riuscivano a capire l’importanza della riflessione filosofica per la vita quotidiana e per la stessa vita dello spirito. Perciò Scoto con pazienza continuò la sua spiegazione.

«Vedete, la filosofia è una sapienza antica e come ogni sapere sapienziale ha un risvolto pratico importantissimo: quando capiamo che la nostra vita, il nostro essere è un essere finito, mi rendo conto di quanto grande debba essere Chi è al Principio di questo essere. Questa consapevolezza ci deve portare a vivere con umiltà la nostra vita, accettando i difetti e cercando di rialzarci dopo essere caduti. La filosofia ci mostra che cos’è necessario e cosa non lo è…».

«Quindi il rettore non ha compreso questo?».

«Esatto. Ha vissuto in un certo momento della sua vita sostituendo il necessario con il contingente».

«Perché ha detto “in un certo momento”, Maestro?».

«Perché, per noi uomini, non c’è nulla di certo e il bene non è mai acquisito del tutto. E soprattutto dobbiamo mostrare misericordia verso gli erranti pur non scusando l’errore. Dobbiamo pregare anche per i nostri confratelli che hanno sbagliato».

Tutti annuirono. La lezione terminò con quest’ultimo insegnamento che mostrò ancora una volta la grandezza e l’umiltà di Giovanni Duns Scoto. Da un triste episodio della sua vita riuscì a trarre un prezioso insegnamento per gli studenti.

V.

Mercoledì, 2 ottobre 1308

La giornata si presentava insolitamente soleggiata e Giovanni Duns Scoto era, come sempre in aula. La sua era una vita dedita all’insegnamento. Non aveva fatto altro che parlare con Dio, nella preghiera, e di Dio, nello studio. Per Scoto, la ricerca aveva senso solo quando non era una mera soddisfazione intellettuale, ma una crescita della persona in tutta la sua interezza e una ricerca del senso ultimo.

Quel mercoledì stava affrontando il delicato tema della concezione immacolata di Maria. La sua fama di teologo forse era anche superiore a quella di filosofo, proprio per la sua posizione sulla concezione di Maria. Molti teologi non erano d’accordo con la posizione di Scoto, ma lui con caparbietà continuava a sostenere la sua tesi.

Nell’aula c’era un silenzio che sfiorava la sacralità: il suono delle parole vibrava e si diffondeva nell’aria, sembrava quasi un canto che cercava di esprimere il mistero che la mente di Scoto aveva per tante notti meditato.

«Ciò conveniva, era possibile, e dunque Dio lo fece» – concluse Scoto.

La lezione terminò con quelle parole. Scoto, stanco e affaticato, lasciò l’aula. Non aveva il suo solito sorriso.

Un mese dopo, precisamente il 7 novembre, nel convento di Colonia si respirava un’aria triste e greve: il confratello Giovanni Duns Scoto era seriamente ammalato. Il giorno dopo, l’8 novembre del 1308, Giovanni Duns Scoto morì. Tutti lo piansero. Soprattutto gli studenti che avevano apprezzato la sua sottigliezza logica che riposava però sulla semplicità.

A ragione, dunque, il professor Giovanni Duns Scoto venne soprannominato il Dottore sottile, come recita ancora oggi l’iscrizione sulla sua tomba:

Rever. P.F. Ioannes Scotus Sacrae Theologiae Professor,

Doctor Subtilis nominatus, quondam Lector Coloniae,

qui obiit anno Domini 1308, sexto Idus Novembris

Fine

Giovanni Covino


Note al testo

Nel capitolo secondo: la preghiera che Scoto ricorda di aver fatto a 10 anni è una citazione del libro della Sapienza, 9, 4; in questo capitolo viene citato più volte, nella parte dialogica, il Trattato sul primo principio, prima citazione viene dal cap. I, par, la seconda citazione del Trattato, cap. III, par. 1, terza citazione del Trattato, cap. IV, par. 1.

Nel capitolo IV. 1, l’erba sardonia fa riferimento alla pianta conosciuta con il nome di finocchio d’acqua, una pianta molto velenosa.

Nel capitolo IV. 2: «Abyssus abyssum invocat» è una locuzione latina tratta dalla traduzione della Vulgata del Salmo 42; il riferimento all’erba che germoglia è tratto dal Salmo 89.

La vita di Duns Scoto può di certo essere definita un parlare di o con Dio. Tuttavia, il riferimento nel quinto capitolo “parla con Dio o di Dio” è, in realtà, un riferimento alla vita di Domenico di Guzmán, tratto dalla Storia dell’Ordine dei Predicatori (Libellus de Principiis O.P.: Acta canoniz. sancti Dominici; Monumenta O.P. Mist. 16, Romae 1935, pp. 30 ss., 146-147).

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