Ordo amoris. Le virtù dianoetiche: il retto comportamento della ragione

Un’altra puntata della rubrica Ordo amoris: il nostro viaggio continua con le virtù dianoetiche.

L’arte o tecnica qui deve essere intesa non come il semplice fare o produrre, ma come il saper fare o produrre: l’accento va posto su quel “saper” che si riferisce alla capacità di un individuo di riuscire, tramite un buon ragionamento, a produrre qualcosa di buono. Esempio: l’artigiano che produce una forchetta è un buon artigiano quando raggiunge lo scopo del suo lavoro, vale a dire produce un oggetto, nel caso specifico la forchetta, ben funzionante. Spiega Aristotele:

«La tecnica consiste in un certo stato abituale, accompagnato da ragione vera e rivolto alla produzione, mentre l’imperizia tecnica rappresenta il contrario, e cioè è uno stato abituale accompagnato da ragionamento falso, rivolto alla produzione, che riguarda ciò che può essere diversamente da come è».

Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 4, 1140 a 20

In questo senso, la tecnica – spiega Tommaso, seguendo lo Stagirita – non è altro che la capacità di seguire la recta ratio per ben produrre un oggetto e in questo senso è un abito speculativo. Inoltre, occorre sottolineare che il bene in questo caso non consiste nell’intenzione dell’artefice, ma esclusivamente nella qualità del prodotto (cfr Summa theologiæ, I-II, q. 57, a. 3, resp.).

L’intelletto consiste nell’intuizione dei princìpi primi: è l’abito che dispone l’uomo alla conoscenze delle prime verità (cfr Summa theologiæ, I-II, q. 57, a. 2, resp.). Come spiega Aristotele:

«[D]ato che la scienza rappresenta un giudizio che ha per oggetto gli universali e ciò che accade necessariamente, e poiché vi sono principi sia di ciò che viene dimostrato sia di ogni scienza (infatti la scienza è accompagnata dalla ragione), allora il principio della conoscenza scientifica sarà oggetto né di scienza né di tecnica né di saggezza […] e se non è possibile che ad avere per oggetto i principi siano quelle tre, rimane che ad avere per oggetto i principi sia l’intelletto».

Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 6, 1140 b 30-35 – 1141 a 5

È il significato stesso della parola “intelletto” che chiarisce quanto detto: intus-legere, cioè “leggere dentro” o “capacità di leggere dentro”. Si presenta quindi come l’abito che rende capaci di leggere, nella realtà esperita, ciò da cui ogni scienza parte. In questo senso, un intelletto virtuoso è un intelletto che non rifiuta ciò che è immediatamente evidente e su queste evidenze fonda il suo lavoro razionale.

La scienza – spiega Tommaso (cfr Summa theologiæ, I-II, q. 57, a. 2, resp.) – è la «cognizione ragionata e piena» dei diversi generi di cose. È l’abito che ci permette di risalire, partendo dai princìpi colti dall’intelletto, fino alla cause di ciò su cui stiamo indagando. E Aristotele ci dice:

«La scienza di configura come uno stato abituale che produce dimostrazioni, con tutte le altre caratteristiche che abbiamo distinto negli Analitici [secondi, I, 1, 71 a 1-11]; infatti si ha scienza quando si ha in qualche modo la certezza e quando i principi ci sono noti; se infatti non sono noti più della conclusione si avrà scienza solo per accidente».

Aristotle, Etica Nicomachea, VI, 3, 1139 b 30-35

La sapienza è una specie di scienza, ma più perfetta, in quanto è la conoscenza profonda che arriva ai perché ultimi delle cose o – come dice Aristotele – la «scienza che possiede il fondamento delle realtà più eccellenti» (Etica Nicomachea, VI, 7, 1141 a 20; cfr anche Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ, I-II, q. 57, a. 3; Gilson 1995).

Con questo abito, noi abbiamo la possibilità di occuparci delle cose più belle: essa, infatti, ci permette un processo risolutivo fino alle ultime cause (cfr Summa theologiæ, I-II, q. 57, a. 3), come spiega molto bene Aristotele:

«[L]a sapienza è sia scienza sia intelletto delle realtà che sono per natura di maggior valore. Per questo di dice che Anassagora, Talete e i loro simili sono sapienti ma non saggi, dato che si vede che ignorano ciò che per loro è vantaggioso, e si afferma che conoscono cose straordinarie, meravigliose, impegnative e sovrumane, ma inutili perché non si occupano dei beni umani».

Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 7, 1141 b 5-10

Giovanni Covino

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