Negli articoli precedenti ci siamo soffermati sulla sapienza come mezzo per superare quella che Kierkegaard chiamava “malattia mortale”. Seguendo la strada della sapienza, l’uomo riesce ad uscire da una sorta di loop esistenziale che consiste nel cercare il senso del finito nel finito stesso. In fondo, la malattia mortale per una persona non è altro che questo ridurre tutto alla semplice linea orizzontale del tempo della vita che nasce, cresce e muore.
La sofferenza, in questo senso, è una sorta di pungolo che porta l’uomo a toccare con mano o meglio a sentire sulla propria pelle questa finitezza, questa precarietà ontologica e che conduce l’uomo alla stringente necessità di trovare un senso e rompere il loop di cui sopra.
Ora, è proprio quanto appena detto che rende il Libro di Giobbe di estremo interesse: ragione e fede, nelle sue pagine, s’intrecciano nel vissuto sofferente di un uomo giusto. Come dice Kierkegaard, «Giobbe non figura su di una cattedra universitaria a gesticolare in favore di alcune tesi, ma siede sulle ceneri e si gratta coi cocci e senza interrompere questo suo lavoro lascia cadere per caso alcuni suggerimenti e osservazioni» (S. Kierkegaard, Antologia delle opere, cit., p. 31). Come a dire: Giobbe non allontana i suoi occhi dalla realtà, non è lì a chiudere nel proprio reticolo concettuale la vita e la sofferenza, ma nel e col suo vissuto dispensa insegnamenti.
Quando maledice il giorno della sua nascita (capitolo terzo), Giobbe mostra al lettore quanto detestabile sia la vita sofferente, ma il grido e il lamento non devono far dimenticare che: l’impossibilità di alzare gli occhi, la chiusura nella propria esistenza priva di qualsiasi scopo è cosa ancor più detestabile. Anche nel lamento, nell’angoscia, nella sofferenza, Dio, per Giobbe, non è mai assente.
L’interlocutore principale di Giobbe è proprio il Signore, il Bene in sé, l’Assoluto. La catena che stringe l’animo è spezzata dallo sguardo che penetra e trascende l’umana vicenda sempre posta – come dice Blaise Pascal – tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, grandezza e miseria.
Giovanni Covino